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Day #35 - A Heartbreak

Ora di guida consecutiva numero 38, in un’amena autostrada russa su cui prima o poi dovrebbe apparire Ulan-Ude, il traguardo del Mongol Rally. È notte, dall’altra parte solo qualche faro ad abbagliare gli occhi e – grazie progresso tecnologico, a buon rendere! – una cassa bluetooth che evita il supplizio delle ultime hit pop siberiane.


Eravamo rimasti al Magister, l’ennesimo salvatore (ma solo il secondo saldatore) a rimettere in sesto Fujiko e permetterci di passare la frontiera tra Kazakistan e Russia. Non ci speravamo, stavolta, e i 2.900km che credevamo di divorare in 3 giorni di guida sembravano un ostacolo troppo grande.


La Mongolia, nel frattempo, aveva deciso con uno scherzo di cattivo gusto di chiedere cauzioni in cash per l’ingresso delle macchine del rally: quasi 7.000 dollari che chissà come e quando ci sarebbero stati restituiti, ad una frontiera diversa da quella di ingresso. Un Mongol Rally senza Mongolia, quindi, quasi come essere finalmente invitati ad una festa delle elementari a casa del tuo amore segreto e scoprire che lì bevono la Ben Cola.


(Sonno, ancora 15 minuti per il cambio turno, nessun’imitazione di autogrill in vista)


Poco male, tirare dritto per la Russia farà risparmiare tempo su una tabella di marcia sempre più scadenziata dai guasti. Scopriamo che la mulattiera verso Bishkek ha costretto al ritiro due ragazzi, che dopo aver bruciato la frizione a 3.000 metri (proprio lì dove Fujiko ha scelto di rimanere muta) sono dovuti scendere a piedi per 36 ore, salvandosi dalla disidratazione solo grazie alle bottiglie filtranti. Macchina regalata ad un nomade e rally abbandonato con la sensazione sulla pelle di essere scampati a qualcosa di non proprio piacevole, la stessa che noi abbiamo evitato con garra, vangate e discese a motore spento.


Ma torniamo a noi. Il Magister ci restituisce un mezzo pronto a ruggire per gli ultimi chilometri verso Ulan Ude: sostituzione del pezzo rotto con pezzo di altro automezzo ignoto e relativo adattamento, controllo generale motore e usuale regolazione dei martelletti, serraggio ruote/differenziale, cambio di olio e candele.

Passano quasi 1.000km, massima determinazione a puntare l’arrivo in tre giorni, per quanto massacrante possa essere aggiungere una maratona di guida ad altri trenta passati nell’abitacolo. Fermi ad un benzinaio, dalla radio: “fumo bianco, cazzo”. Cofano.


Un buco nella testata. A heartbreak.


Stupido martelletto, era l’ultima regolazione da sopportare prima dell’arrivo. La vite, alzata troppo, non ne ha voluto sapere e ha cercato la fuga, sfondando il coperchio e causando un’eruzione d’olio. Stop. Ancora.


La storia non è finita, state tranquilli. Se c’è qualcosa che l’Amaro Montenegro ha insegnato a noi degli anni 80 - ok, oltre al fatto che ci sono dei burroni con cavalli da salvare – e ok, anche che se ne bevi più di 7 la mattina dopo vedi ancora doppio - è che se la tempesta non si placava, i ragazzi erano in una situazione disperata e anche se sembrava impossibile, l’antico vaso andava portato in salvo, cazzo!

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